Durante la giornata di pellegrinaggio ad Oropa, il 29 settembre, si è svolto un interessante incontro tenuto da Don Michele (Rettore del Santuario di Oropa). Crediamo di poter affermare che per tutti coloro che vi hanno partecipato sia stata una bella giornata di condivisione.Vengono proposti appunti trascritti dalla segreteria per spunti di riflessione.
BANCO SAN BENEDETTO
OROPA 29.9.2013
Don Michele Berchi
Perché lo fate?
La prima cosa evidente è che nonostante il nostro impegno non si risolve nulla.
L’idea di partenza, la speranza, è che almeno un pochino si possa fare qualcosa, si possa cambiare qualcosa, ma i problemi delle famiglie che incontrate non si risolvono.
Quando sono andato in Perù, Andrea Aziani, il responsabile del movimento di CL di Lima, mi ha portato in un punto panoramico dal quale si vedeva tutta la povertà della città, e mi sono sentito perso, come se qualsiasi cosa io potessi fare, non sarebbe stata in grado di risolvere niente di quella povertà. Lui mi ha detto: se tu stessi qui anche tutta la vita, da qui (da questa collinetta) non si vedrà niente di quello che avrai fatto!
Crolla in un istante anche la più piccola speranza di utilità. Non puoi barare per affermare che invece c’è una qualche utilità, non puoi farti illusioni.
Qui da noi è più facile illudersi che si possa cambiare qualcosa.
C’è un altro fatto: chi noi pensiamo di aiutare non è a volte così collaborativo nel farsi aiutare ma sembra quasi volerti fare un piacere.
Di fronte a tutto questo ci possono essere due conseguenze:
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Può emergere una certa rabbia verso gli occidentali, verso il mondo ricco che ha causato queste situazioni di povertà. Si rischia di diventare degli illusi e quindi di deprimersi.
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Oppure sfruttare chi ha bisogno per sentirsi bene e quindi cadere in una gratificazione personale
Qual è la vera opera che voi fate? Che cambiamento ha prodotto in noi? Perché diresti a un altro vieni con me?
Enzo
Il meccanismo che muove al fondo tutte le cose da fare è un’apertura del cuore.
Don Michele
Che cosa stiamo facendo? Qual è l’oggetto di quest’opera?
Nicola
Uno va in caritativa per rispondere al bisogno naturale di aiutare gli altri.
L’esperienza che faccio nel portare il pacco è anche educativa.
Alessandro
Sono io il primo a cambiare nel gesto che faccio e mi rendo conto che, quando torno a casa guardo i miei familiari in modo diverso.
Imo
Lo faccio innanzi tutto per me, siamo noi bisognosi di aiuto.
Laura
Non bisogna dare per scontato nemmeno l’essere qui oggi.
Avrebbe potuto prevalere la prigrizia, tante scuse, e invece aver scelto di venire e di insistere anche con mio marito fa parte del aver colto un bisogno che è prima di tutto mio.
Non mi sarei accorta del bisogno di questa ragazza (Laura racconta di una persona che vede spesso ma delle quale prima non aveva colto il bisogno) se non fossi stata educata attraverso il gesto delle famiglie solidali. Sono contenta di essere qui oggi.
Don Michele
Nel libretto sulla Caritativa si legge: “La legge dell’esistenza è il dono di sé”. Tutto ciò che esiste è dono. L’esperienza rende conto di qualcosa di profondo di cui siamo fatti. Se si da qualcosa a chi è nel bisogno ci si sente realizzati.
E’ vero che uno sente il bisogno di essere amato, ma anche di amare. Pensa al caso in cui tu ti trovi nella condizione di non poter dare più nulla a nessuno: ti sfasci.
Il modo di amare l’altro è il modo di amare me stesso. Non sapremmo dire se abbiamo più bisogno di amare o di essere amati.
Non si può più vivere se non si pensa di poter dare qualcosa di sé gratis. Io divento più me stesso tanto più mi do.
Se io rifletto su quello che vorrei fare di fronte ai bisogni che vedo, capisco che non so da che parte cominciare.
La Chiesa ha detto: non cominciare a 360° altrimenti non ce la fai. Bisogna educarsi ad essere se stessi in tutti gli ambiti. Incomincia a mettere a fuoco un punto in cui tu possa darti gratis, perché questo ti educhi ad esserlo sempre: questa è la CARITATIVA.
Le opere nascono così: io ho bisogno di potermi educare a questo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Non è possibile che io ti ami senza che io sia un bene per te o che io faccia qualcosa per te senza volerti bene.
E’ la legge con cui ti rapporti con l’altro: non puoi donarti senza essere te stesso e non puoi essere te stesso senza donarti. Questo fa cambiare il modo con cui io guardo chi mi sta attorno. Questo introduce qualcosa che cambia veramente.
Dobbiamo toglierci quella sicurezza che spiazza la dignità degli altri: Noi non sappiamo davvero di cosa hanno bisogno!
Ciò di cui ognuno ha bisogno è di scoprire il proprio io. Questa educazione alla persona richiede tempo, pazienza, cadute e riprese.
Don Giussani raccontava che alcuni ragazzi tornati dalla Caritativa erano rimasti delusi dal fatto che la signora alla quale avevano portato degli aiuti economici, alla visita successiva aveva usato quel denaro per acquistare, tra le altre cose, un rossetto. Avevano giudicato questo acquisto come non essenziale.
Don Giussani li rimproverò perché non avevano capito, che per lei in quel momento, il desiderio più grande era di sentirsi bella, di sentirsi donna.
Comincio a cambiare io e il mondo intorno a me: “Tu non sai quale sia il vero bisogno dell’altro”, a volte non lo sa nemmeno lui.
Non è così scontato che la vita sia un tempo per realizzare se stessi: questo è un concetto cristiano, soprattutto se pensiamo all’approccio al lavoro.
E’ un capolavoro del cristianesimo chiedere “cosa farai da grande”, perché implica il fatto che quello che tu farai è la realizzazione di te stesso. Invece fuori da questo ambito cristiano, il lavoro è la schiavitù necessaria per mangiare.
Noi abbiamo perso questo concetto anche perché non siamo più cristiani. All’estero non c’è l’idea che tu possa realizzarti e come tu possa aiutare a realizzare i tuoi figli.
Il bisogno è diventare sé, ma perché accada è necessario avere una meta, e che io sappia che valgo e posso realizzare me stesso.
Spesso si sente dire: “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”.
In realtà al povero bisogna dare il senso del vivere, non basta dare la canna da pesca. Se uno capisce perché vale la pena vivere, se lo inventerà da solo il modo migliore per procurarsi il cibo.
Il problema non è mai solo economico ma soprattutto educativo.
Dobbiamo educare a riconoscere il senso del vivere, ridare la scintilla per cui vale la pena vivere.
Dove impariamo ad essere noi stessi? A tavola, in famiglia.
(don Michele racconta episodi accaduti durante la sua esperienza missionaria ):
…..alcuni ragazzi di Lima, di ritorno da una vacanza studio in Italia ospitate presso famiglie cattoliche, mi raccontarono con commozione:
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del loro stupore nel vedere la famiglia riunita a tavola dove il papà domandava come fosse andata la giornata, rivolgendosi con lo stesso interesse anche al bambino più piccolo. Questo da loro non accade! Non ci si aspetta per mangiare a tavola tutti insieme, viene così a mancare questo momento di intimità familiare nel quale ognuno è riconosciuto e valorizzato
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una delle ragazze inoltre raccontò di aver partecipato ad una gita (durante la sua permanenza in Italia) che doveva impegnarla solo per un giorno, ma lei ed alcune compagne decisero di tornare il giorno dopo senza avvisare la famiglia ospitante.
Il genitore ospitante che si era recato la prima sera alla stazione ad aspettarla invano, la sera seguente, al suo arrivo la rimproverò duramente. La ragazza si mise a piangere e di fronte alle spiegazioni del genitore ospitante affermò che piangeva di gioia perché per la prima volta qualcuno l’aveva aspettata e si era curato di lei.
L’opera che compiamo è perché cresca l’io, per permette che si costruiscano Uomini, persone dalle quali emerga il proprio Io.